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Formazione condominiale: opportunità oppure business?

In attesa delle linee guida del Ministero della Giustizia, è polemica sui corsi per amministratori condominiali.

In che cosa deve consistere la formazione iniziale degli amministratori di condominio prevista dalla riforma? Chi è deputato a gestirla? E a chi si deve rivolgere?

Intorno a questi tre interrogativi, nelle ultime settimane si è scatenato un dibattito che ha visto coinvolti non soltanto il Ministero della Giustizia (incaricato dal D.L. Destinazione Italia – di recente conversione - a fissare i requisiti della formazione e dei formatori); e nemmeno le sole associazioni rappresentative dell’amministrazione condominiale e della proprietà immobiliare (ovviamente interessate in prima persona dalla tematica); ma anche soggetti terzi, che a vario titolo stanno prendendo a cuore la questione.
 
Una vicenda, di per sé, piuttosto delicata. Innanzitutto a monte, in quanto - a prescindere dall’esigenza condivisa di formare una categoria in grado di gestire correttamente le nuove incombenze di cui è stata fatta carico proprio dalla riforma del condominio - le misure  introdotte dalla L. 220/2012 implicano la necessità di far coesistere i principi propri di una professione non organizzata in Ordini e Collegi, con un impianto formativo sottratto invece alla discrezionalità delle associazioni di categoria (come previsto dalla legge 4-2013) per essere disciplinato dall’alto.

E poi a valle, in quanto il potenziale effetto di eventuali indicazioni ministeriali troppo tecniche e dettagliate, sarebbe quello di precludere l’attività di formazione, paradossalmente, proprio alle associazioni degli amministratori (o almeno alla maggior parte di queste), per consegnarne l’onere (ma soprattutto l’ampio business) a quelle realtà imprenditoriali in grado di fornire un servizio parauniversitario, con docenti titolati, sale per le lezioni, libri di testo, etc.

Ma facciamo un passo indietro. Ad affrontare il tema della formazione degli amministratori condominiali è stato, per primo, l’articolo 25 della legge 220/2012 di riforma del  condominio, che recita testualmente: “Dopo l’articolo 71 delle  disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie sono inseriti i seguenti: Art. 71-bis. - Possono svolgere l’incarico di amministratore di condominio coloro: [omissis] f) che hanno conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado; g) che hanno frequentato un corso di formazione iniziale e svolgono attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale.  I requisiti di cui alle lettere f) e g) del primo comma non sono necessari qualora l’amministratore sia nominato tra i condòmini dello stabile. [Omissis] 

A quanti hanno svolto attività di amministrazione di condominio per almeno un anno, nell’arco dei tre anni precedenti alla data di entrata in vigore della presente disposizione, è consentito lo svolgimento dell’attività di amministratore anche in mancanza dei requisiti di cui alle lettere f) e g) del primo comma. Resta salvo l’obbligo di formazione periodica”.

In sostanza, la legge ha previsto che, ad eccezione degli amministratori nominati tra i condòmini di uno stabile, e di quelli che hanno già svolto questa professione per almeno un anno negli ultimi tre, tutti gli altri (a partire da quelli che intendono approcciarsi per la prima volta a tale professione) devono seguire un percorso formativo iniziale.

Bene. Ma di che tipo? Per chiarirlo è intervenuto il D.L. 145/2013 (il cosiddetto Destinazione Italia”) specificando, all’articolo 1, comma 9, lettera a) che “la riforma della disciplina del condominio negli edifici, di cui alla legge 11 dicembre 2012, n. 220, è così integrata: a) con Regolamento del Ministro della giustizia, emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono determinati i requisiti necessari per esercitare l’attività di formazione degli amministratori di condominio nonché i criteri, i contenuti e le modalità di svolgimento dei corsi della formazione iniziale e periodica prevista dall’articolo 71-bis, primo comma, lettera g), delle disposizioni per l’attuazione del Codice Civile, per come modificato dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220”. E qui nasce la diatriba.
Già, perché, comprensibilmente (e legittimamente), le associazioni che rappresentano gli amministratori condominiali rivendicano il ruolo di formatori dei loro iscritti. E nel farlo, si trovano a combattere su due fronti.
 
Il primo fronte è interno: essendo, spesso, in concorrenza con le altre, ciascuna associazione  tende, ovviamente, ad affermare il proprio primato e le proprie specificità nella formazione degli associati attuali e, soprattutto, potenziali. Il secondo fronte, invece, è esterno ed è comune: nel senso che conta poco quale sia l’associazione con l’offerta formativa migliore se poi il mercato della formazione finirà appannaggio di realtà imprenditoriali terze, aventi (solo loro) i mezzi per gestire l’attività.

Insomma, prendendo a prestito dal presidente Napolitano un’espressione a lui molto cara, nel settore c’è fibrillazione. E, a dire il vero, regna anche una certa confusione. Ora, a provare a mettere ordine nel ginepraio, è intervenuto un autorevole giornale economico italiano: Il Sole 24 Ore, proseguendo un percorso di dialogo con le associazioni condominiali e della proprietà immobiliare intrapreso già da molti mesi, nel tentativo prima di contribuire a plasmare la riforma del condominio, e poi di individuarne le modifiche necessarie a renderla più funzionale.

Il confronto avviato dal quotidiano con i referenti di settore, questa volta, è mirato a redigere una bozza condivisa di programma per la formazione iniziale dell’amministratore condominiale, da sottoporre all’attenzione del Ministero della Giustizia. Nelle prossime pagine, 10 e 11, pubblichiamo integralmente l’ultima versione del documento, così che anche i lettori possano farsi un’idea dei contenuti. Dire se e in che misura il Ministero terrà conto del progetto è assolutamente prematuro. Tuttavia, alcune rapide osservazioni possono essere espresse fin da subito. 

Innanzitutto, a giudizio di chi scrive, il programma di formazione - 91 ore di lezione, più verifiche periodiche, più un esame finale in forma orale e scritta, più un periodo di tirocinio (seppur facoltativo) - sembra avere, piuttosto, una connotazione accademica, sia per specificità, sia per durata, sia per numero di tematiche trattate. E questo, a maggior ragione, se si considera che, nelle premesse del documento, è specificato che le lezioni devono essere tenute da docenti perlomeno diplomati (o laureati nel caso delle materie giuridiche); e che, soprattutto, “gli enti che si occupano della formazione devono avere organizzazione stabile con un proprio corpo docenti e con adeguati strumenti didattici. In particolare, devono essere messi a disposizione degli allievi adeguati supporti didattici, come libri di testo e simili strumenti che consentano gli approfondimenti e lo studio anche oltre l’orario delle lezioni”.
Ora - sempre a giudizio di chi scrive - i quesiti sono almeno tre.
1) Quante delle associazioni di amministratori condominiali e della proprietà edilizia dispongono, attualmente, di tale struttura e di tali risorse?
2) Quante potranno gestire i corsi professionali in autonomia?
3) Quante, invece, saranno costrette a delegarli (magari stipulando apposite convenzioni) a realtà imprenditoriali in grado di garantire un’offerta così articolata?

Le risposte le lasciamo al Ministero della Giustizia, che nelle sue valutazioni dovrà inevitabilmente tener conto anche di questi fattori, coniugandoli, ovviamente, con l’imprescindibile necessità di una formazione seria, professionale e completa
degli amministratori condominiali.
Per intanto, è interessante capire che cosa ne pensino molte delle associazioni coinvolte dal quotidiano economico nella stesura della bozza di programma.
Gianluca Palladino
Fonte “Italia Casa”